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Ogni tesi sull’euro deve analizzare il problema dell’euro come area valutaria ottimale (AVO). Qui si richiameranno i critici dell’euro come AVO e lo SME e l’ECU come precursori della moneta unica e tappe della costruzione dell’area valutaria ottimale europea.
L’euro come area valutaria ottimale
I presupposti per la formazione di un’area valutaria ottimale sono:
- l’esistenza di un notevole interscambio commerciale;
- la mobilità dei fattori;
- l’integrazione dei mercati finanziari;
- il coordinamento della politica fiscale;
- la comunanza culturale e linguistica.
L’euro sembra privo dei presupposti che ne farebbero un’area valutaria ottimale: non c’è politica fiscale, manca la comunanza culturale e la mobilità dei fattori appare relativa.
Gli oppositori dell’euro
L’Euro ha avuto numerosi oppositori, provenienti da scuole di pensiero economico molto diverse tra loro.
Milton Friedman
Friedman in un’intervista rilasciata nel 2001 a La Stampa mostrava più di una perplessità sul progetto Euro. Sosteneva che l’Europa monetaria non sarebbe durata a lungo in quanto si trattava di un progetto politico imposto alle popolazioni dei diversi paesi dalle élites economico-finanziarie.
Friedman sottolineava alcuni aspetti:
- con l’Euro, per la prima volta nella storia si ha un’unione nella quale la banca centrale è in grado di dettare una sola politica monetaria alla volta e ciascun paese non è libero di uscirne. Risulta impossibile in base ai trattati esistenti, una volta che un paese aderisce all’area valutaria, uscirne, senza nel contempo recedere dall’Unione Europea. Questo è possibile sulla carta, ma, come ha mostrato il caso del Regno Unito, non risulta per nulla semplice e può complicare notevolmente l’economia del paese uscente. L’Euro è stato dunque inteso dai costituenti come una sorta di tatuaggio indelebile, un passo irreversibile;
- Friedman, come si è visto, afferma poi che si tratta di un progetto squisitamente politico, nato dalle élite finanziarie e industriali e imposto alle popolazioni dei vari paesi aderenti.
- Come la gran parte degli economisti americani, tra i pericoli principali considera il venir meno del tasso di cambio e la necessità di agire sui salari in una regione in cui è difficile la mobilità a causa di lingue e culture diverse. Osserva inoltre Friedman: “Siccome nessuna banca centrale è davvero indipendente, qualsiasi cosa sia scritta nei suoi statuti, si fa un compromesso politico tra le diverse esigenze, inefficiente per tutti”.
Paul Samuelson
Samuelson, da sempre scettico verso la moneta unica, in una dichiarazione rilasciata nel 1997, sottolineava il problema della parità dei cambi. Sosteneva come un cambio flessibile fosse meglio di uno ficco e di come un cambio fisso potesse diventale insostenibile.
Nicholas Kaldor
Kaldor, all’inizio degli anni ’70, aveva pubblicato Effetti Dinamici del Mercato Comune, in cui prefigurava alcune delle cause che avrebbero portato alla crisi dell’Euro. In particolare richiamava l’attenzione sulla crescita di squilibri commerciali tra i paesi aderenti causato dal regime di cambio fisso e senza che fossero messi in campo adeguate regole salariali e fiscali e stabilizzatori automatici che ampliassero, da una parte, i surplus commerciali e, dall’altra, deficit e debito pubblico dei paesi strutturalmente più deboli.
Nicholas Kaldor, post–keynesiano della prima ora, fu uno dei primi a evidenziare, innanzitutto, come la costituzione di una moneta comune non sarebbe stata prodromica al vero obiettivo che avrebbero dovuto porsi le nazioni europee: la costituzione di uno stato federale.
In particolare, Kaldor e i post-keynesiani ritenevano che un’Europa senza uno stato europeo avrebbe avuto mille difficoltà, in primo luogo per mancanza di solidarietà; inoltre l’eterogeneità dei sistemi industriali avrebbe fatto crescere disparità e surplus dei paesi più forti. Infine, i vincoli di finanza pubblica avrebbero imposto forti restrizioni ai paesi più deboli. Tutto ciò avrebbe fatto rischiare un’implosione.
L’esistenza di un’Europa solo “economica”, in assenza di un’Europa “politica”, era un paradosso che avrebbe portato a gravi squilibri, soprattutto se shock esogeni avessero colpito asimmetricamente i diversi paesi aderenti.
Il controllo della futura Unione Europea sui parametri di finanza pubblica avrebbe fortemente limitato gli stati membri nel perseguimento di autonome politiche di piena occupazione. Per come è stata concepita, quindi, l’Unione Europea non sarebbe in grado di preservare i propri cittadini dal tentativo, da parte dei singoli governi, di perseguire obiettivi di piena occupazione.
Lo SME e le prime prove dell’Euro come area valutaria ottimale
Nel cammino verso l’Euro come area valutaria ottimale, nel 1972, fu proposto e adottato da una serie di paesi il meccanismo del serpente monetario, il quale aveva il compito di minimizzare i margini di fluttuazione tra le monete comunitarie (il serpente) rispetto a quelli esistenti tra le monete delle nazioni aderenti e il dollaro.
Onde assicurarne il funzionamento, gli Stati membri crearono nel 1973 il Fondo europeo di cooperazione monetaria (FECOM) che era abilitato a raccogliere parte delle riserve monetarie nazionali. Esso, in particolare, aveva funzioni di compensazione e di finanziamento monetario a breve e medio termine.
I risultati dell’accordo furono deludenti. Di fronte alle turbolenze provocate dall’aumento del prezzo del petrolio, gli Stati membri durante gli anni ’70 reagirono con politiche economiche difformi, le quali implicarono frequenti e intense fluttuazioni dei tassi di cambio. Inoltre, si verificarono entrate e uscite dal meccanismo di stabilità dei cambi e il serpente, concepito inizialmente con un accordo di portata comunitaria, fu ridotto a una zona di stabilità monetaria riguardante il marco.
Cominciò ben presto un processo di “disgregazione” dell’accordo, che raggiunse il suo apice nel 1976, causa i profondi disaccordi in tema di politica economica tra i paesi europei. Tale fallimento fu motivato dalla crisi del petrolio iniziata nel 1973, oltre che all’impatto che produsse la rivalutazione del marco tedesco in contrasto con la debolezza del dollaro. I primi a disattendere l’iniziativa furono Regno Unito e Irlanda, non ancora membri della CEE ma partecipanti alla stessa, i quali si ritirarono nel giugno 1972, seguiti dopo breve tempo da Francia e Italia. Le valute di Gran Bretagna e Italia, in particolare, furono oggetto di violenti attacchi speculativi.
Il Sistema Monetario Europeo
Il Sistema Monetario Europeo venne introdotto nel 1979. Suo obiettivo primario, come prova per costruzione di un’area valutaria ottimale e della moneta unica, era la stabilizzazione dei tassi di cambio tra paesi e, in questo modo, favorire il rallentamento della crescita dei prezzi, apportando una certa omogeneità alla dinamica inflattiva. Obiettivo che si voleva raggiungere grazie alla riduzione del margine di fluttuazione di ciascuna moneta a un modesto scostamento rispetto a un valore di riferimento.
Il progetto, prodromico alla successiva realizzazione dell’area Euro, fu caratterizzato dalla proposta di introdurre una sorta di moneta unica europea, denominata ECU, il cui valore derivava da un paniere di monete e un sistema di pesi proporzionato rispetto all’importanza economica di ciascuna delle nazioni aderenti. Progetto, a sua volta indirizzato alla costituzione di un’area valutaria comune a tutta l’area Euro alla quale, tuttavia, rimasero estranei una serie di paesi aderenti alla UE, tra cui il Regno Unito.
La decisione di creare un sistema monetario europeo (SME) venne presa sebbene le prospettive di successo per un’area europea a cambi fissi sembrassero lontane, quando l’inflazione annua variava dal 2,7% della Germania al 12% in Italia. L’idea di fondo era instaurare una zona di stabilità monetaria in Europa, riducendo le fluttuazioni tra le monete dei paesi partecipanti.
ECU
Tra gli elementi fondamentali dello SME vi era l‘ECU.
L’ECU era una moneta che non aveva corso legale, o meglio un paniere di monete, costituita con importi fissi di ciascuna delle monete partecipanti. Gli importi erano calcolati moltiplicando il peso attribuito a ciascuna valuta per il tasso di cambio della stessa rispetto all’ECU, mentre il peso di ogni moneta era funzione del contributo di ciascun paese al PNL collettivo e agli scambi intercomunitari. L’ECU manteneva pertanto un corso determinato rispetto a ciascuna delle monete che lo componevano ed era pari alla somma del numero di unità (ovvero frazioni di unità) di detta moneta che entravano nella composizione dell’ECU e degli importi delle altre monete convertiti nella prima al tasso di cambio centrale (ECU centrale) o al tasso di cambio del giorno (ECU di mercato).
Un secondo pilastro dello SME era costituito dai corsi centrali e dal meccanismo di stabilizzazione monetaria. Dal corso di una moneta in ECU, infatti, si poteva dedurne il corso in ciascuna delle altre valute partecipanti (tassi di cambio incrociati): si trattava dei tassi di cambio centrali bilaterali. Tali corsi potevano formare oggetto di aggiustamenti decisi di comune accordo (svalutazione o rivalutazione). I corsi centrali servivano da base al principale obbligo dello SME; in particolare, la fissazione di una percentuale al di là della quale una moneta non poteva fluttuare rispetto al suo corso centrale in rapporto ad un’altra moneta.
Ciò era quindi tradotto in un obbligo per gli Stati partecipanti, mentre la percentuale venne fissata inizialmente a ±2,25%, con l’eccezione dell’Italia il cui limite di oscillazione era stato stabilito al 6%. Quando una moneta raggiungeva i limiti inferiori e superiori di fluttuazione, le due banche centrali interessate dovevano intervenire per impedire che gli stessi fossero superati. Questo intervento assumeva la forma di acquisti della valuta in questione se si trattava di una diminuzione rispetto al corso centrale, di vendita se si trattava di un rialzo. Il paese emittente della moneta, peraltro, doveva agire prima che il limite massimo di fluttuazione autorizzato fosse raggiunto. Quando il tasso di cambio superava il 75% di tale percentuale massima (“indicatore di divergenza”), la moneta era considerata “divergente” e il paese doveva intraprendere misure correttive. A tale scopo, fu anche deciso di mettere in comune i mezzi di intervento da parte delle banche centrali dei paesi aderenti, i quali erano rappresentati dal 20% delle riserve in oro e dollari delle medesime autorità monetarie nazionali. Sotto il profilo storico-economico, va qui brevemente ricordato come nel periodo compreso tra il 1979 e il 1986 vi furono undici riallineamenti valutari, resisi in particolare necessari in conseguenza dei forti differenziali inflazionistici fra le valute dei paesi aderenti.
Gli sviluppi successivi
Anche in seguito alla realizzazione dell’area valutaria ottimale e all’entrata in vigore dell’Euro le differenze strutturali tra le diverse economie non vennero superate, malgrado la creazione e l’uso della moneta unica. Ad esempio, tra il 1999 ed il 2008 si verificò esattamente l’opposto: aumentarono le differenze. In Germania, paese a bassa inflazione, i tassi d’interesse reali aumentarono, si ebbe la contrazione della domanda interna, aumentò il tasso di disoccupazione e si abbassarono i salari. In Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda – i futuri PIGS – i tassi d’interesse diventarono negativi, mentre la domanda interna ed il costo del lavoro aumentarono.
Da quando l’Unione monetaria ha eliminato il rischio di cambio le forti discrepanze a livello di conto capitale sono state equilibrate dai flussi di capitale diretti dalle economie in surplus a quelle in deficit.