Ormai da diversi anni, per lo meno dall’ultimo decennio del XX secolo, in Italia, la delocalizzazione appare un fenomeno consolidato, per molti aspetti inarrestabile e che ha conosciuto una forte crescita.
Le strategie attuate dai gruppi che delocalizzano non hanno come esclusivo obiettivo la riduzione dei costi unitari di produzione; si vuole infatti, anche perseguire il potenziamento della rete vendita, per aumentare la presenza nei nuovi mercati, i quali mostrano migliori prospettive di sviluppo.
A tale riguardo, in passato sono stati, inizialmente i mercati dell’est europeo e della Turchia, successivamente quelli dell’Asia, a fare sì che alcuni gruppi riuscissero ad incrementare le proprie vendite a livello globale.
Sempre in vista della maggiore penetrazione nei mercati emergenti, in passato si è investito notevolmente, in molte imprese italiane, nel potenziamento della rete di vendita. A tale riguardo, sono stati acquistati negozi e si sono offerti incentivi ai partner commerciali. In particolare, si sono acquisiti negozi soprattutto in quei paesi in cui la gestione della distribuzione in franchising appariva più difficile e che avevano notevoli prospettive di sviluppo, ovvero l’India, la Corea, la Russia. Si è inoltre fatto ricorso a partnership di tipo produttivo e commerciale con alcuni dei maggiori operatori del mercato in cui si è scelto di delocalizzare.
Se inizialmente molti gruppi italiani (grosso modo a partire dagli anni ’60) traevano il proprio successo e la propria forza dalla stretta relazione che avevano con i subfornitori locali, soprattutto della zona più vicine, la base produttiva territoriale di origine è sembrata in seguito, in generale, giocare un ruolo estremamente marginale, essendo la produzione localizzata in gran parte all’estero. Il rischio maggiore era la perdita del know how, delle capacità, delle idee e delle conoscenze che erano proprie del territorio distrettuale, oltre che le ricadute negative sull’occupazione.
I mutamenti verificatisi sono stati dovuti a ragioni di tipo diverso. Ad esempio di costo, poiché l’Italia non è più, già da tempo, competitiva a livello di costo di manodopera come lo era negli anni ’60/’70 rispetto agli altri paesi avanzati di allora; inoltre, non dispone più di una moneta debole come la Lira che ne favoriva l’export; infine bisogna considerare gli stessi mutamenti dei diversi settori: molti di questi – si pensi al tessile ed alla moda, tradizionali punti di forza del sistema Italia – sono caratterizzati da progettazioni più brevi, innovazioni continue nei prodotti, tempi di risposta più brevi.
In ogni caso, tuttavia, il distretto ormai da tempo sembra aver perso la funzione trainante che rivestiva in passato. Infatti, pare aver diminuito la sua funzione di generare quella ricchezza di idee e di capacità tecniche che hanno consentito a molti operatori di sperimentare le innovazioni che ne hanno sostenuto la rapida crescita. In passato, le innovazioni alla radice del successo di molte imprese italiane erano proprio quelle sviluppatesi a stretto contatto con il fare, dal contatto tra la gente che progetta e quella che produce. Si trattava d’innovazioni di prodotto e di innovazioni di processo nate dalla pratica quotidiana delle macchine, dalla familiarità con un’ampia gamma di materie prime e accessori; infine, di innovazioni organizzative che avevano aperto alla distribuzione e al marketing del prodotto prospettive impensabili in precedenza.